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Cronaca della guerra che Venezia mosse contro le città di Gallipoli, Nardò ed altri luoghi della provincia di Terra d'Otranto narrata da Angelo Tafuro da Nardò sul finire del 1400. La presa di Nardo'

Le Fotorassegne!

Cronaca di una guerra 2

La presa di Nardò

anonimo, G.B.Tafuri in Dell`origine, sito ed antichita` della citta` di Nardo

Arrivato luglio, il generale Malipiero lasciò nella città di Gallipoli e negli altri luoghi conquistati una buona quantità di soldati come guardia e si spostò con il resto dell'esercito verso Nardò.

Piantarono i padiglioni intorno alla città e l'artiglieria verso sud e ovest.

Nardò è posta in una bella e piana campagna; secondo le antiche tradizioni, fu costruita dal popolo che fuggito dall'isola di Lecatia che, per la grande penuria di acqua della terra d'origine, si stabili in questa zona.

Ha avuto parecchie guerre dai romani all'imperatore Ottavio; nuovamente ricostruita arrivarono Goti, saraceni, normanni e altre genti che l'anno sempre tormentata.

Quando i neretini scorsero l'esercito veneziano si unirono e in processione di penitenza con avanti tutti i piccoli innocenti, zitelle e uomini e donne, preti e monaci, si diressero verso la chiesa di San Michele per placare l'ira di Dio e chiedere la grazia di difendere con la sua potenza, come altre volte era successo, la città di Nardò.

In processione si fece il girò tre volte intorno alla chiesa e dopo tutti entrarono dentro per pregare e dopo ognuno se ne tornò alla propria casa.

I giovani intellettuali cercarono di convincere il popolo di lasciare la città ma non furono ascoltati e costretti a restare.

Appena l'esercito dei veneziani si sistemò, ai cittadini di Nardò si presento il solito trombettiere; questi suonò tre volte, dicendo che se si fossero arresi ai Veneziani non sarebbe stato fatto alcun danno alla città e ai cittadini ma, se non si fossero arresi, lo avrebbero fatto dandogli fuoco.

Ma i cittadini risposero che non si sarebbero mai arresi perché erano fedeli a re Ferrante e non avrebbero obbedito a nessun altro.

Tornato al campo e data la risposta al generale Malipiero, questi diede ordine ai soldati di distruggere le campagne e di assaltare e distruggere la città.

La mattina del 4 luglio i veneziani distrussero le piantagioni di grano e biada ancora da mietere e gli alberi, rubarono pecore e buoi dalle masserie e, per tutto il giorno, saccheggiarono e distrussero tutto ciò che trovavano sul loro cammino, senza nessuna compassione, al punto che neppure i turchi ed i saraceni erano arrivati a tanta barbarie; tutto questo portò disperazione e lacrime ai cittadini di Nardò.

Continua -a questo punto- la narrazione Angelo Tafuro, dicendo: “Così voglio raccontare una bella storia”.

Venti persone, vedendo tanta distruzione alla loro terra, la notte, ben armati, uscirono dalla città [di Nardò, n.d.r.], nei pressi di Santa Sofia, dai cunicoli sottoterra fatti anticamente per far defluire dell'acqua piovana.

Si nascosero in alcuni campi: alle prime luce del giorno scorsero 50 soldati veneziani usciti dall'accampamento per fare altro danno, come il giorno prima. Tuttavia, stavano appena cominciando la loro opera devastatrice che i cittadini li attaccarono con tanta rabbia e furore che ne fecero una strage: ne ammazzarono 15 e ne ferirono altri 5; dopo si nascosero di nuovo nei campi seminati e fatta notte tornarono all'interno della città da dove erano usciti.

Le continue cannonate avevano fatto una gran breccia nel muro di cinta e i cittadini cominciarono ad aver paura anche perché non vedevano nessun soccorso da parte delle altre città.

Il quarto giorno i veneziani si prepararono per l'assalto e cittadini, con grande animo, si prepararono ad affrontarli sperando ancora nell'aiuto di qualcuno.

Avvicinati i soldati cominciò una tremenda e infiammata battaglia, sparandosi con i moschetti dall'una e dall'altra parte e altro non si vedeva se non fuoco e fumo che era veramente un terrore.

Dei veneziani morirono parecchi soldati perché volevano prendere ad ogni costo la città ma non ci riuscirono perché la difesa era forte e gagliarda.

Cosi si ritirarono senza far nulla; dei cittadini furono in pochi a morire.

L'8 di luglio, al sorgere del sole, l'esercito nemico si disposero in grande fretta ma anche i Neretini si organizzarono, pronti a fronteggiare il loro assalto.

I soldati si volsero a nord verso località Paduli, non appena scorsero i soldati venuti in aiuto della città.

Il giorno seguente l'artiglieria fece un grosso danno al convento di San Francesco buttando giù un muro interno e uccidendo padre Roberto Seleuco; un altro suo confratello fu ferito ad una spalla da una pietra: i monaci, constatando il pericolo, fuggirono tutti per la paura.

Questo fu uno dei motivi che costrinse i Neretini a mettere fuori lo stendardo bianco ed arrendersi; ai generali veneziani furono inviate due persone: messer Lupo Nestore e Giovanni Pecoraro.

Quando uscirono dalla città e furono dinanzi al generale gli fecero la reverenza e furono accolti benevolmente. Decisero così la resa in cambio di lasciare la città così com'era.

Il generale accettò ma volle un presidio di soldati al castello.

Giunti così ad un accordo, tutti entrarono nella città trionfanti e festanti. Osservando tutte le promesse fatte, l'armata veneziana non fece stragi: anzi con grande benevolenza ascoltava tutti e soccorreva i bisognosi, tanto che andò dal generale una povera donna, Domenica Capoccia, lamentando che la sua casa era stata distrutta dalle bombarde e che lei e le sue figlie non avevano dove dormire. Il generale ordinò che venissero portate al suo cospetto e, vedendo che si trattava di ragazze da marito, le ammogliò ed alla madre fece ricostruire la casa. Ordinò anche la ricostruzione del muro del convento e di tutte le case e delle altre mura della città distrutte dalle bombarde. Nonostante queste buone azioni non fu ben visto dai cittadini per la devastazione e la distruzione fatta nelle campagne.

Quando i soldati si furono riposati il generale ordinò loro di andare a saccheggiare i luoghi vicini, così si diressero verso Copertino a sette miglia dalla città di Nardò, saccheggiarono le case mentre la povera gente andava correndo a destra e sinistra per la paura. Faceva una grande compassione vedere le famiglie dormire allo scoperto, nelle campagne e mangiare erba per la fame.

Dopo Copertino passarono all'assalto di Veglie e Leverano e fecero lo stesso, depredando le masserie ed ammazzando gli animali, tanto che per l'intera provincia fu un vero terrore

Il 5 di agosto arrivarono, per ordine del Re, dalla Terra di Bari e della Daunia (detta Capitanata) molti soldati che andarono a Lecce per poter difendere la provincia. Ma quando lo venne a sapere il Generale richiamò subito tutti i soldati dislocati in diversi luoghi, li fece ritirare nella città di Gallipoli e nella città di Nardò facendo tutte le provviste per poter resistere e difendersi dai soldati.

Ordinò anche che ogni soldato stesse al suo posto aspettando il nemico per la battaglia.

Ma vedendo che non si muoveva nulla, decise di andare con tremila soldati sino alle porte di Lecce per conquistare la città e sconfiggere i soldati mandati dal Re di Napoli.

Ma non ci riusci: dalla città di Lecce uscirono i soldati e diedero ai veneziani una bella “sconquassata”. Durante la battaglia morirono molti soldati veneziani e lo stesso generale fu in pericolo di morte perché, per dare animo ai soldati che indietreggiavano, si mise d'avanti facendo una strage.

I soldati si ritirarono nella città e il generale vedendo che molti dei suoi erano stati uccisi fece venire altre 1000 soldati da Gallipoli e da Nardò.

Mentre le cose volgevano al meglio si ebbe notizia che, il 6 di agosto, si era fatta la pace tra i re, il papa e il duca di Ferrara: con questa notizia, i leccesi, presero un po di fiducia.

Ma dopo si tornò ad avere paura: con la morte del Papa Sisto [si tratta di Papa Sisto IV, il cui pontificato ebbe termine il 12 Agosto del 1484, n.d.r.] si temette che non si firmasse la pace. Tuttavia non fu così perché venne un corriere da Napoli dicendo che il re comandava che non si cedesse di un passo: così ognuno restò al suo posto.

Il 12 di Agosto si venne a conoscenza che la pace era fatta. Un mese dopo, il 12 di Settembre, venne da Napoli il signor Giovan Battista Caracciolo, gentiluomo napoletano, in nome del re, riprese ogni luogo conquistato dai veneziani.

Si fecero feste per quella liberazione e finirono tanti travagli e turbolenze e, finalmente, i veneziani lasciarono Gallipoli.

Sistemate tutte le cose si decise di mandare al re due ambasciatori pregandolo di fare bene tante spese e danni avevano patito per quella guerra, e così furono mandati Messer Lupo Nestore e Giovanni Pecoraro che arrivarono il 20 di ottobre davanti al re di Napoli. Essi dissero che erano stati inviati per chiedere la sua clemenza e gli raccontarono tutti i danni subiti e le spese sostenute nella guerra; al re dispiacque molto ed ordinò un indulto di non pagare quello che si doveva e così fece per tutte le altre terre martoriate.

I privilegi concessi dal re furono scritti su carta pergamena.

Documento creato il 03/01/2013 (09:09)
Ultima modifica del 03/01/2013 (16:31)
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